A margine della Commissione parlamentare sulla
Contraffazione, che ha visto la partecipazione della vicepresidente di
Confindustria Lisa Ferrarini, ho delineato la ricetta del M5S per la tutela del vero Made in Italy
La
Commissione parlamentare sulla Contraffazione, riunitasi alla Camera dei
Deputati, ha visto la partecipazione della vicepresidente
di Confindustria Lisa Ferrarini, la quale detiene anche la delega al “Made
in Italy”. Un appuntamento di fondamentale importanza per il futuro
dell’economia italiana, oramai interamente dipendente dalle esportazioni visto
il mercato interno totalmente saturo.
Purtroppo non
è emerso nulla che possa far presagire un cambio di rotta nella politica della
tutela delle produzioni nazionali. Nonostante si è ammesso che i controlli non
possono riguardare più del 2% delle produzioni, nonostante le frodi
probabilmente ascendono a cifre superiori al totale delle stesse produzioni
italiane, la vicepresidente non ha fatto altro che sostenere una più puntuale
applicazione della legge sul Made in Italy. Ritengo, però, che non bisogna
fermarsi alla fase di contrasto e controllo perché è solo uno degli aspetti
della questione. La vera lotta alla
contraffazione parte agevolando all’origine le imprese che agiscono sui binari
della legalità. È il costo eccessivo della burocrazia a determinare lo
svantaggio competitivo a danno delle nostre imprese e a favore di chi non
adempie gli obblighi normativi.
Questa la “ricetta” dei 5 Stelle per rendere la
lotta alla contraffazione più efficace di quella odierna,
ritenuta sostanzialmente fallita e senza futuro. “Purtroppo molto Made in Italy è realizzato con materie prime
d’importazione e, quindi, l’azione di contrasto al falso si traduce anche in
sostegno dei produttori esteri. Mentre il
Sud d’Italia, produttore di enormi quantità di materie prime alimentari
eccellenti, deve subire i prezzi d’importazione”. Si delinea, insomma, una
forte contrapposizione tra i sostenitori della conservazione di un sistema di
etichettatura che premia solo i grandi produttori nazionali (usualmente
settentrionali) e una visione più ampia che includa nelle attenzioni dei
politici anche le piccole imprese meridionali.
Una visione che, ovviamente, non mira a demolire o danneggiare indirettamente i grandi trasformatori e venditori attuali ma che non può rinunciare ad ammettere la necessità di una politica più includente e che comprenda che il riscatto del Mezzogiorno è l’unica chance esistente per uscire dalla crisi. Continuare a far finta che non ci sia, non risolve nulla. È necessario che il Sud faccia squadra attorno a queste tesi, superando gli steccati partitici, semplicemente perché il futuro è di tutti noi.
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